venerdì 23 novembre 2012

L'impatto dell'ambiente


Stamattina, mentre bevevo il thè, ho gettato l’occhio sul mio terrazzo.
Nulla sarà più come prima.
Se un tempo passavo ore ed ore a trastullarmi tra i vasi, potando, concimando, rinvasando e accudendo con sollecitudine ogni singola piantina, da quando c’è Giacomo le mie amorevoli cure sono state sostituite dalla precisione cronometrica di un irrigatore automatico di ultima generazione: due innaffiature al dì, cinque minuti ciascuna, alle ore 5.00 e alle ore 21.30. Da aprile a ottobre. E ciò basti.
L’efficiente marchingegno, messo a dimora da mio marito non senza una certa fatica e un esagerato numero di tentativi di calibrazione, ha sicuramente avuto il merito di arginare la catastrofe totale. Buona parte delle mie amiche vegetali è sopravvissuta a ben due estati milanesi arroventate da un caldo senza precedenti. Ben venga l’irrigatore e i suoi ugelli regolabili. Ma sempre di marchingegno trattasi. E dunque a lui sfugge la corsa sfrenata del convolvolo, che rischia di soffocare crudelmente la passiflora. Così come non coglie il dramma della salvia, divorata da una tenace coppia di piccoli bruchi, che solo il mio spirito animalista mi ha impedito di eliminare. Ed è sordo al grido d’aiuto della magnolia soulangeana, che oltre all’innaffiatura necessiterebbe di abbondanti irrigazioni su foglie e germogli, riarsi dalla calura agostana.
E ora, nel novembre inoltrato e stranamente tiepido di quest’anno, la mia mancanza di attenzioni non trova scusanti: il panorama del terrazzo è abbastanza desolante.
Ma la mia attenzione è captata in particolare da una piantina grassa. Devo a questo punto, con un certo imbarazzo, confessare un piccolo reato.
La scorsa estate, durante una vacanza in Grecia, sono stata catturata dal fascino delle numerosissime piante succulente dell’isola. Un insieme di specie a me del tutto sconosciute.
Le ho osservate, ammirate, fotografate. Ma non ho resistito. E ho compiuto un furto. Solo qualche getto, si intende. Una piantina deliziosa, nella sua semplicità. Aeonium Tabuliforme, una succulenta tipica delle coste del Mediterraneo. Un piccolo fusto dritto e svettante, molto ramificato negli esemplari adulti, sormontato da rosette di foglie succulente color porpora. Adorabile. E, soprattutto, sconosciuta ai florovivaisti nel Nord Italia.
Chi ama il giardinaggio conosce quell’incoercibile spinta ad appropriarsi di ogni nuovo e affascinante esemplare. Dunque i piccoli getti, sapientemente protetti da una scatola, sono giunti con me a Milano e sono stati messi a dimora in un vasetto di terracotta.
Eccoli lì, ora, a quattro mesi di distanza: le foglie delle rosette, alla disperata ricerca del calore e della luce greca, si sono diradate e allungate a dismisura, e hanno definitivamente perso quell’affascinante color porpora, in favore di un verdino smorto e opaco.
Una stessa pianta, in due posti diversi, cresce arrivando a produrre due esemplari che non sembrano neppure lontanamente imparentati.
Bene. Potevi lasciarla dov’era, direte voi.
Vero. Verissimo.
Ma dalla metamorfosi dell’Aeonium le mie riflessioni, cullate dal torpore di quella mezzora di colazione solitaria, prima che si svegli il mio piccolo boss, si sono spostate altrove. 
Sui figli.
Se Giacomo non abitasse qui, con noi come genitori, in una mansarda della zona Est di Milano, ma si trovasse, per esempio, in una famiglia allargata di qualche sperduto paese del mondo, come diventerebbe? Cosa ne sarebbe di lui, del suo carattere, della sua crescita, delle opportunità diverse che potrebbe avere?
Con i figli alcune scelte diventano dubbi amletici – scuola pubblica o privata? Medicina omeopatica o allopatica? – mentre su tante altre cose andiamo diretti. Noi siamo il loro clima, il sole, la pioggia, l’umidità, l’inquinamento. E questo può far cambiare il colore delle loro foglie, in meglio o in peggio. Sono per lui il clima migliore? Potrei dargli qualcosa in grado di farlo germogliare meglio?
Sommersa da uno schiacciante senso di responsabilità, porto l’Aeonium in casa, sperando che il tepore del riscaldamento domestico possa almeno parzialmente compensare le mie colpe.

sabato 17 novembre 2012

un cuscino di Linus


Non parliamo del cibo. In quelle settimane mi nutro cercando di scegliere alimenti che possano almeno approssimativamente essere ricondotti al loro aspetto originario e che siano stati verosimilmente cotti per un periodo di tempo sufficiente. Ma sull’igiene mettiamoci pure una pietra sopra. In un posto come questo è una partita persa in partenza. Spero soltanto di evitare l’intossicazione alimentare acuta. Per il resto conto sul mio stomaco, solitamente in grado di neutralizzare qualunque cosa, compreso il plutonio.
Ma tu, nano, ci sei o non ci sei? Quando per strada adocchio una donna incinta sono confortata: è la prova che anche in Birmania si può diventare mamme. Addirittura, loro, le gravide birmane, si spostano su trabiccoli pericolanti e motociclette che cadono a pezzi. E di bambini ce ne sono parecchi in giro. Allora anch’io posso sperare. In fondo il ciclo non arriva, altre perdite non se ne sono viste.
Giunti a Mandalay sono sull’orlo di una crisi di nervi. Intimo alla guida di portarci da un tappezziere locale per comprare un cuscino ben imbottito. Lo voglio grande e robusto. So che non può scongiurare il peggio, ma in questo momento è la mia coperta di Linus. Ne ho bisogno. Voglio un cuscino tra me e il sedile dell’auto, tra me e le buche, tra me e il mondo esterno. La guida ci guarda con aria attonita: ha accompagnato centinaia di turisti prima d’ora, alcuni veramente assatanati in fatto di shopping, ha procurato loro qualunque genere di souvenir (cappellini, magliette, ombrellini di bambù, cartoline, orecchini, statuette, batik, ciondoli di giada, arazzi, costumi tipici, ventagli intagliati, scatole laccate, servizi di tazzine e quanto di meglio si possa desiderare in fatto di artigianato e paccottiglia orientale a buon mercato), ma un gigantesco cuscino imbottito mai.
Ci dirigiamo con la macchina in una delle zone meno popolate e meno raccomandabili della città: al termine di una strada semideserta c’è una casupola di lamiera. La nostra macchina si ferma proprio qui. È un negozio stipato di materassi, cuscini, cuscinetti, tende. Seduti sul marciapiede, i proprietari stanno pasteggiando con riso bianco e un intingolo di natura indefinibile. Due turisti: visione incredibile, a dire dalle loro espressioni sbigottite. Hanno un momento di spaesamento, ma è questione di un attimo. Lo spirito commerciale ritorna rapidamente ad animarli. Si alzano in fretta, accendono le luci del negozio e simulano un’accoglienza degna dei magazzini Lafayette.
Entro con aria marziale. Io spiego a mio marito, mio marito traduce in inglese per la guida, la guida traduce in birmano per il commerciante. Mi faccio portare davanti a una pila di cuscini. Li tasto con perizia. Uno per uno. Eccolo. Terribile: rosso a fiori rosa. Ma la consistenza e la dimensione sono eccellenti per il delicatissimo compito cui deve adempiere. Paghiamo. Suppongo che con la cifra che ci hanno chiesto per il cuscino abbiano finito di pagare il mutuo del negozio. Mio marito, che per indole in queste situazioni contratta con la tenacia di un arabo in un suk, stavolta paga senza fiatare. Il mio sguardo da apache non tollera dilazioni. Posiziono il cuscino sul sedile dell’auto e si rientra in albergo. Da quel momento il cuscino diventa il mio compagno inseparabile.
A ogni nuovo tragitto, a ogni nuova tappa, lui è con me. Entro in ciascun albergo portandolo gelosamente sotto il braccio, seguita dallo sguardo del concierge che cerca malamente di dissimulare il proprio stupore di fronte al mio insolito bagaglio. «Schiodami di dosso quegli occhiettini a mandorla, mio caro. Tu non sai che prezioso carico dobbiamo proteggere.» Da Mandalay fino a Milano, il cuscino rosso è con me, sotto di me.

giovedì 15 novembre 2012

genitori no alpitour (2)




Ovviamente non può andare tutto liscio e a causa d una piccola macchia di sangue il panico assale prima me e poi, per osmosi, mio marito. Forse non ci sei più. Forse siamo stati così maledettamente idioti da non considerare che potevamo farti del male. Siamo distanti ore da qualunque ospedale o ambulatorio medico e, posto che ce ne fosse uno, onestamente non so se mi fiderei di un medico birmano e delle sue competenze ginecologiche.
Il giorno seguente, mentre attraversiamo il lago, mi torna in mente un libro di Amy Tan  ambientato proprio sul Lago Inle. È anche per merito o per colpa di quel libro che sono qui. In esso si raccontava la storia di un gruppo di sprovveduti turisti sequestrati da una tribù locale per ottenere un lauto riscatto. Ci manca solo il sequestro poi abbiamo fatto tombola. Sono così triste e incazzata che se un manipolo di birmani armati fino ai denti si presentasse per rapirci li farei fuori tutti io. Come una Tartaruga Ninja. Che ci faccio io su ʼsto cavolo di lago quando la Natura mi aveva affidato un piccolo ma fondamentale tassello del più alto dei compiti, la prosecuzione della specie?
Nei giorni seguenti tutto tace. Il ciclo non arriva. Ci sei ancora microfagiolo? Oppure no, e il mio corpo si sta riassestando per ripartire da zero?
Siamo tristi, ma non possiamo fare nulla. Visto che ormai siamo in ballo col viaggio, balliamo. Attraversiamo mercati meravigliosi e variopinti, ma talmente maleodoranti e fetenti da farmi supporre che il mio sistema immunitario sia allertato e vigile come una sentinella pakistana al confine con l’India. Affrontiamo scalinate chilometriche. Suoniamo campane votive di ogni misura e materiale. Percorriamo distese sconfinate di risaie. Contempliamo decine e decine di Buddha: distesi, seduti, in piedi, con occhi aperti e occhi chiusi, formato bonsai o formato grattacielo, di legno, di muratura, d’oro, di giada. Ci spostiamo su qualunque genere di mezzo: pulmino, auto, jeep, imbarcazioni, tuc-tuc, aerei piccoli e grandi. Io, per ogni mezzo su cui salgo, compreso l’aereo, supplico mio marito: «Puoi chiedergli di andare piano?»
Eh sì, perché sono i tragitti il momento peggiore, quando a ogni curva si rischia una buca imprevista che ti fa sobbalzare sul sedile dell’auto come una pallina in un flipper. Parliamo al tizio che ci fa da guida. Gli spieghiamo la situazione con toni accorati. Riusciamo a commuovere lui e il guidatore. Hanno a cuore la nostra situazione, specialmente per la lauta mancia che allunghiamo loro. Tutti pagano per correre. Noi paghiamo per andare lenti. Lentissimi. Niente buche, per carità!

martedì 13 novembre 2012

Genitori no alpitour


Il primo problema che si pone qualche ora dopo è il seguente: domani pomeriggio dobbiamo imbarcarci su un volo intercontinentale, destinazione Myanmar. Il nostro viaggio di nozze, bramato, fantasticato, preparato da tempo in ogni dettaglio e ora finalmente alle porte. È un viaggio piuttosto impegnativo: un tour per il paese con spostamenti quasi quotidiani. L’abbiamo scelto proprio pensando che in futuro, se fossero arrivati dei bambini, per qualche anno non sarebbe stata una meta abbordabile. Certamente non pensavamo di portarci un figlio così piccolo da non essere ancora nato. Che si fa? Dopo averci rimuginato a lungo decidiamo: si parte. Si parte perché noi siamo fatti così. Siamo testardi e un po’ incoscienti. Si parte perché, comunque sia, possiamo cercare di fare le cose con giudizio senza esporci a rischi inutili. Si parte perché, in fin dei conti, nessuno dei due ha ancora veramente capito cosa ci sta succedendo. Nulla sarà più come prima